“Educare all’autocura per promuovere salute” è una nuova pubblicazione che propone un approfondimento teorico e contestualmente ne elabora l’applicazione pratica di princìpi, metodi e strumenti di processi educativi per contribuire allo sviluppo di competenze avanzate nel campo dell’educazione alla salute e, come auspicato in molti documenti dell’OMS soprattutto dell’educazione terapeutica.
Questa sintesi – teoria/pratica – si fonda sull’esperienza clinica e preventiva maturata da Jessica Longhini, autrice del testo, in particolare nelle cure domiciliari e nei team della medicina generale, integrata da una ricca attività di docenza e di ricerca su queste tematiche.
In coerenza con le più attuali teorizzazioni fonda le esperienze pratiche proposte sulle teorie della self care, sull’integrazione della malattia o disabilità nella quotidianità della persona e della famiglia, sulle teorie del cambiamento comportamentale e del colloquio motivazionale, per citare le più importanti.
Il testo è ricco di esempi, casi, storie, piani standard, diari di monitoraggio, coerenti con la convinzione che è la singolarità delle situazioni che genera un sapere tacito che arricchisce teorie e saperi formali.
Il testo può essere utile per la formazione universitaria delle professioni sanitarie ai diversi livelli, ma anche per i professionisti chiamati quotidianamente a occuparsi e pre-occuparsi delle capacità e potenzialità dei loro assistiti e delle famiglie/caregiver.
Particolarmente utile per gli infermieri di famiglia e di comunità, figure privilegiate nel condurre percorsi educativi a lungo termine, ma anche per docenti, formatori e responsabili di formazione continua che potranno trovare in esso, soprattutto, anche indicazioni per lo sviluppo di programmi e profili di competenza nell’ambito dell’educazione terapeutica.
Il libro non rappresenta un percorso solitario di Jessica Longhini, ma si inserisce nel progetto della Collana di Scienze Infermieristiche diretta da Anna Brugnolli, Alvisa Palese, Luisa Saiani di cui ne condivide la filosofia e le scelte di fondo.
Presentazione
Questo libro “Educare all’autocura per promuovere salute” propone una riflessione teorica e contestualmente ne elabora l’applicazione pratica, orientata soprattutto alle persone con malattie croniche e ai loro familiari. Questa sintesi – teoria/pratica – si fonda sull’esperienza clinica e preventiva maturata da Jessica Longhini, autrice del testo, in particolare nelle cure domiciliari e nei team della medicina generale. La ricca attività di docenza su queste tematiche Le ha permesso di sistematizzare framework e strumenti e di metterli a disposizione dei professionisti sanitari che con ruoli diversi si occupano di prevenzione, educazione e assistenza.
Le scelte di fondo
Sin dalla lettura dell’indice, sono evidenti le scelte di fondo che hanno guidato nella progettazione e realizzazione di questo libro. Il libro si caratterizza perché
• mantiene attiva la prospettiva preventiva e di promozione della salute anche quando affronta la presenza di malattie croniche e disabilità, nonostante la scelta di esplorare in particolare metodi e strumenti dell’educazione terapeutica;
• definisce esito primario dell’educazione terapeutica le abilità di autocura, e non solo gli esiti clinici; la tensione costante è orientata a rendere la persona capace di utilizzare strumenti e strategie per gestire autonomamente i propri problemi di salute, promuovendo così la massima autonomia possibile. Non si sofferma a dichiarare questa finalità ma propone al lettore una disamina sulle più attuali teorie del self-care posizionandolo come tema centrale nello sviluppo della disciplina e della pratica infermieristica;
• l’intervento educativo proposto è basato su un approccio person and family centred per facilitare la persona nell’integrazione della malattia nella propria vita quotidiana, consentendole di trovare una dimensione di significato in relazione alla propria idea di qualità di vita. Questa scelta traspare in tutte le fasi progettuali e attuative dell’educazione, che vedono coinvolta anche la famiglia e/o caregiver. Inoltre, tutte le fasi del processo educativo sono integrate con i principi (es. auto-efficacia, motivazione) che producono il cambiamento dei comportamenti a livello individuale e al modo in cui questo si afferma all’interno di una famiglia e comunità;
• costante è il ruolo della persona con problemi di salute che condivide, co-decide con il professionista, vero protagonista della sua salute e delle sue scelte. Questo approccio esplode in tutta la sua potenzialità nell’analisi dei bisogni ricca di suggerimenti e sfumature che solo una pratica esperta può produrre.
• l’educazione transita attraverso una relazione intenzionale che si nutre di ascolto, tecniche motivanti, buone domande, sintesi e rilanci. Approfondite sono le parti dedicate al colloquio motivazionale, proposto sia in forme brevi realistiche per contesti in cui l’incontro con la persona è di breve durata e approfondito quando la relazione di cura si protrae nel tempo e permette una alternanza continua di colloqui, follow up, rinforzi, nuovi obiettivi. Spesso emerge un flusso di azioni non sequenziali ma circolari che avanzano, arretrano, ripartono immaginando realisticamente il percorso verso l’autocura tortuoso e complesso;
• l’impianto teorico e applicativo esplora anche la “cassetta degli attrezzi” di un educatore: piani standardizzati, check list, diari di monitoraggio, sistemi digitali con applicazioni su telefoni cellulari smartphone fino a sistemi di tele monitoraggio più complessi;
• il testo è ricco di esempi, casi, storie di percorsi educativi coerenti con la convinzione che è la singolarità delle situazioni che genera un sapere tacito che arricchisce teorie e saperi formali.
Il libro non rappresenta un percorso solitario di Jessica Longhini, ma è frutto di una collaborazione con gli autori di questa presentazione, impegnati da tempo in riflessioni teoriche, pedagogiche e professionali sulla disciplina e sulla pratica infermieristica, delle quali una testimonianza è stata la pubblicazione del Trattato di Cure infermieristiche.
È la stessa tensione ad arricchire le competenze dei colleghi ma con una attenzione e apertura ad altre professioni– ostetriche, fisioterapisti, assistenti sanitari, educatori professionali, tecnico della riabilitazione psichiatrica – per menzionare quelle più affini e che condividono forme diverse di cura della persona ma pur sempre basate su una relazione educativa.
Panoramica dei capitoli
Nel primo capitolo sono approfonditi i concetti relativi ai temi della promozione della salute, dell’educazione alla salute e dell’educazione terapeutica con l’obiettivo di distinguere un intervento educativo da altri interventi che, pur utili, hanno una finalità prevalentemente informativa. In particolare, si analizza la finalità educativa più importante che è quella di sviluppare nelle persone abilità di autocura. È proposta una disamina sulle diverse teorie e terminologie utilizzate per definire questi concetti, facendo riferimento a documenti dell’OMS e alla teoria di Riegel e colleghi, che rappresentano anche il framework teorico dei capitoli successivi.
Il secondo capitolo introduce le fasi del percorso di progettazione e attuazione educativa, e descrive i fondamenti comunicativi e relazionali coinvolti nel processo educativo con il paziente, come il colloquio motivazionale e l’approccio di “shared decision making”.
Nel terzo capitolo viene affrontata la prima fase del percorso educativo, ovvero l’analisi dei bisogni educativi. Sono approfondite le diverse tipologie di bisogno, sia percepito che clinico, offrendo strumenti e domande guida per identificarli da una prospettiva sia della persona assistita che del professionista. Il percorso proposto si articola nella rilevazione dei bisogni attraverso domande mirate, relative alle abilità di autocura; allo stile di apprendimento e all’alfabetizzazione sanitaria, anche digitale, per adattare metodi educativi e linguaggio alle capacità del destinatario, per arrivare a definire le priorità tra i bisogni emersi.
Il quarto capitolo si concentra sulla definizione degli obiettivi educativi, sulla base dei bisogni prioritari individuati: a partire da finalità generali sono dettagliati obiettivi sempre più specifici e personalizzati rispetto ai comportamenti di autocura attesi. Viene inoltre offerta una panoramica delle condizioni da esaminare per assicurare che la persona disponga delle risorse necessarie per realizzare il comportamento desiderato. Tali condizioni sono classificate in sei dimensioni: conoscenze, abilità pratiche e abilità relazionali-affettive, motivazione, opportunità fisiche e opportunità sociali. Per ciascuna di queste dimensioni sono proposti metodi ed esempi pratici.
Il quinto capitolo offre una panoramica sugli strumenti di monitoraggio, analizzando frequenza e intensità del follow-up in base ai bisogni educativi e agli stadi del cambiamento attesi e percepiti/osservabili o misurabili sulla persona assistita. Si discutono variabili che possono influire sulla durata e intensità del percorso educativo, proponendo strumenti come diari di automonitoraggio, schemi terapeutici e strumenti digitali a supporto del percorso educativo e della promozione dell’aderenza terapeutica.
Nel sesto capitolo si conclude il processo educativo con una riflessione sulla valutazione, fornendo una panoramica di indicatori da considerare per valutare sia percorsi educativi patologia-specifici, sia percorsi rivolti a pazienti con comorbilità.
Il settimo capitolo propone strumenti pratici per l’applicazione dell’educazione terapeutica, come guide per il colloquio, schede strutturate di indagine e piani educativi predefiniti. Viene presentato un adattamento di tali strumenti per contesti diversi, inclusi quelli ospedalieri che a differenza di quelli territoriali o ambulatoriali, possono presentare maggiori sfide nella piena attuazione del percorso educativo.
L’ottavo capitolo propone l’applicazione delle metodologie offrendo situazioni emblematiche e scenari comuni della pratica assistenziale quotidiana.
Il nono capitolo affronta la peculiarità di interventi educativi rivolta a gruppi e comunità, presentando quadri teorici e strumenti per personalizzare gli interventi in questi contesti. Sono proposti tre esempi: due relativi a persone/gruppi omogenei per patologie croniche e uno inerente all’educazione alla salute sessuale nelle scuole.
L’ultimo capitolo affronta le strategie organizzative a supporto dell’educazione terapeutica, offrendo una sintesi delle evidenze disponibili sulle barriere e i facilitatori nei contesti sanitari. Sono proposti framework di competenze che dovrebbero possedere i professionisti impegnati nell’educazione terapeutica per sviluppare programmi formativi, sia di base che di aggiornamento continuo o di specializzazione avanzata.
A chi è rivolto questo testo
Il testo può essere utile per la formazione universitaria delle professioni sanitarie ai diversi livelli, ma anche per i professionisti chiamati quotidianamente a occuparsi e preoccuparsi delle capacità dei loro assistiti e delle famiglie/caregiver.
Particolarmente utile per gli infermieri di famiglia e di comunità, figure privilegiate nel condurre percorsi educativi a lungo termine per persone che presentano fattori di rischio per lo sviluppo di malattie, come stili di vita inadeguati o fasi iniziali di patologie croniche.
Il testo è anche pensato per docenti, formatori e responsabili di formazione continua che potranno trovare in esso, soprattutto nell’ultimo capitolo, anche indicazioni per lo sviluppo di programmi e profili di competenza nell’ambito dell’educazione terapeutica.
Anna Brugnolli, Alvisa Palese, Luisa Saiani
Prefazione
Recentemente, la Word Health Organization (WHO, 2023) ha pubblicato una Guida alla Therapeutic Patient Education, che integrano e superano lo storico documento programmatico pubblicato alla fine degli anni Novanta (WHO, 1998), molto noto anche in Italia.
L’esigenza di una nuova guida della WHO è ragionevolmente da imputare, da un lato, al fatto che, negli ultimi venticinque anni, ci sono stati sviluppi significativi nella Therapeutic Patient Education (TPE – Educazione terapeutica del paziente) e nel supporto all’autogestione, della propria malattia, influenzati da cambiamenti sociali e demografici; dall’altro lato, la proporzione di persone con condizioni croniche e multi-morbilità è in crescita, con gli over-65 che costituiranno un quarto della popolazione occidentale entro il 2050.
Di fronte a molteplici sfide ai sistemi sanitari, le carenze di personale e le continue pressioni finanziarie, tali sistemi necessitano di trovare soluzioni efficaci ed efficienti alle domande di salute dei cittadini. L’educazione terapeutica viene infatti definita come “un intervento efficace che ha dimostrato di aiutare le persone che vivono con condizioni croniche a gestire meglio la loro malattia, ottenendo così migliori risultati di salute, [un più appropriato] utilizzo delle risorse e [un miglioramento della] qualità della vita. Ha un grande potenziale per migliorare la vita dei pazienti, alleggerendo contemporaneamente la pressione sui sistemi sanitari” (WHO, 2023, p. vi).
Osserviamo quindi, fin da subito, che l’educazione terapeutica si deve basare su prove di efficacia. Per produrre tali prove, essa deve necessariamente concretizzarsi in un intervento strutturato (ossia con obiettivi, contenuti, metodi, tempi, spazi predefiniti), non estemporaneo, il quale, anche se centrato sulla persona, perché, appunto, considerata al centro del processo di apprendimento, deve essere sostenuto da linee guida ed evidenze scientifiche mirate a specifici profili di pazienti (con diabete, con asma ecc.), al fine di aiutarli a gestire autonomamente e al meglio i loro problemi di salute.
L’autogestione della malattia comporta non solo l’acquisizione di conoscenze e skill, ma anche la capacità di adattarsi ai nuovi ruoli sociali a cui la malattia costringe (per esempio, un padre, da sostegno di una famiglia monoreddito può diventare un soggetto molto fragile, dipendente dalla sua famiglia). Inoltre, il paziente deve in qualche modo imparare a gestire le conseguenze psicologiche ed emotive dell’essere nella condizione di malato cronico (WHO, 2023, p. 6).
Sappiamo da anni che le conoscenze e la capacità di gestire con successo determinati problemi impattano sul senso di auto-efficacia e di controllo dei pazienti, quindi su alcuni aspetti psicologici della malattia, come vedremo anche in questo contributo. Infatti, strumenti validati per misurare, per esempio, la self-efficacy e il locus of control sono altresì utilizzati nelle ricerche sugli effetti dell’educazione terapeutica dei pazienti. Ma non possiamo ragionevolmente pensare che, se un paziente ha migliorato il suo senso di autoefficacia sia venuto a patti col cambiamento identitario profondo che una malattia cronica spesso richiede. Questo tipo di cambiamento, che ha a che fare con il significato precipuo dell’educazione, richiede tempi lunghi, scambio di esperienze, lavoro su di sé, riflessività, negoziazione coi cambiamenti ineluttabili che impone la malattia (Zannini, 2023); aspetti dei quali i profesisonisti sanitari dovrebbero farsi carico attivando alleanze con altre forme di “cura” che troviamo nei territori, come il volontiariato, l’associazionismo, le reti comunitarie e, non da ultimo, gli interventi di altri professionisti.
La struttura del testo proposta da Jessica Longhini segue le fasi della progettazione educativa.
Dall’analisi dei bisogni derivano una serie di obiettivi espliciti, condivisi col paziente (come sottolinea anche la WHO, 2023, che parla di shared decision making e di patient engagement), che quest’ultimo deve raggiungere – col supporto dell’equipe sanitaria –, nonché una serie di metodologie formative, adatte alla tipologia degli obiettivi e delle condizioni facilitanti il raggiungimento degli stessi, a seconda che questi ultimi riguardino maggiormente conoscenze o abilità pratiche o competenze affettivo-relazionali. Infine, vengono indicati preziosi strumenti per il monitoraggio e la valutazione dell’intervento.
Si tratta, lo sottolineiamo, di interventi programmati, nei quali la competenza didattica del professionista della salute ha un ruolo centrale. La didattica ha a che fare con l’insegnamento, che, in ambito sanitario, erroneamente, è stato inteso come un “impartire informazioni”, sostanzialmente attraverso delle mini-lezioni o, peggio, mediante dei semplici ordini. L’enorme lavoro di ricerca che è stato svolto negli ultimi decenni non solo in ambito sanitario, ma anche in quello scolastico, ha dimostrato che i processi di apprendimento sono molto più efficaci quando sono student-centered, quando cioè coinvolgono il formando, che spesso è un adulto, in un processo di apprendimento attivo (WHO, 2023), stimolato da metodologie che lo implichino in prima persona (come, per esempio, il Teach back o lo Show me method dei quali si parla in questo testo). È vero, frequentemente, la parte della popolazione più avanti con l’età (i grandi anziani) si aspetta ancora, dal professionista sanitario, una serie di indicazioni da seguire, sulle quali non si sente più di tanto di discutere. Ma dobbiamo pensare che i giovani anziani di oggi sono i figli del boom economico nelle società occidentali (i cosiddetti boomer); sono quindi individui che spesso hanno un elevato livello d’istruzione, si aggiornano e usano le risorse in rete e si aspettano di essere coinvolti nei processi di apprendimento che riguardano la loro salute, partecipando alla definizione di obiettivi e strategie per raggiungerli.
I metodi d’insegnamento al paziente vanno in ogni caso veicolati da modalità di comunicazione efficace, che supportino e motivino i pazienti, come giustamente indica Longhini nel secondo capitolo di questo testo. All’interno di questa comunicazione, le narrazioni dei pazienti delle loro preoccupazioni e difficoltà possono essere molto utili per comprendere appieno la loro situazione, rilevare dei bias conoscitivi e personalizzare gli interventi. Come dice un paziente, “il divario tra medici e pazienti può essere molto ampio. Finché i clinici non diventano consapevoli di ciò che il paziente sta vivendo, non riusciranno a progredire nella cura con empatia o comprensione” (WHO, 2023, p. 37). La ricchezza di questo testo sta nelle frequenti narrazioni e dialoghi tra paziente e professionista educante che permettono di intercettare le molte sfumature della situazione vissuta dalla persona rispetto alle motivazioni, alla disponibilità al cambiamento etc. Lo spazio che queste narrazioni possono avere nell’incontro con il professionista della cura non è molto ampio, come per esempio, all’interno di contesti di self help, ma, come abbiamo segnalato altrove (Zannini, 2008), un ascolto attivo del malato può richiedere pochi minuti e dare molte informazioni utili a chi si appresta ad approntare un piano terapeutico, per il quale può essere indispensabile l’intervento educativo. Nella prospettiva pedagogica, questi processi finalizzati a sviluppare apprendimenti nei pazienti non possono essere generalmente definiti come autenticamente “educativi”. Come ha sottolineato anche un importante filosofo dell’educazione come Gert Biesta (2022), il linguaggio dell’educazione non è riducibile a quello dell’apprendimento. Certamente, l’educazione promuove apprendimenti, ma il suo scopo non si riduce all’apprendimento: essa ha la finalità ultima di aiutarci a individuarci (o re-individuarci) come persone, come cittadini del mondo che sappiano vivere nel rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente. L’educazione terapeutica non può ambire a questa finalità, ma, se ben condotta, può aiutare la persona a imparare a convivere con la malattia.
Possiamo quindi dire che le attività educative dei professionisti della salute hanno primariamente la finalità di raggiungere in modo efficace ed efficiente degli obiettivi di apprendimento. Ciò va fatto in modo rigoroso, seguendo le evidenze a disposizione e quanto indicato dalla letteratura scientifica, soprattutto per quanto riguarda metodi e strumenti di valutazione. Il contributo di Jessica Longhini, provvisto di preziosi esempi d’interventi col singolo e in gruppo, nonché di interessanti casi clinici, va esattamente in questa direzione.
È poi importante tener presente che chi si occupa di educazione terapeutica deve cercare non solo di seguire linee guida, derivanti da evidenze scientifiche, ma anche di raccogliere dati in modo rigoroso e sviluppare progetti di ricerca che contribuiscano al miglioramento continuo di tali pratiche educative, anche e soprattutto nel contesto italiano. C’è insomma un gran bisogno di ricerca sui processi d’insegnamento ai pazienti e il presente contributo darà sicuramente, almeno nel nostro contesto, molti spunti di riflessione. Perché se, da un lato, è difficile fare ricerca sperimentale sui processi autenticamente educativi (troppe variabili li influenzano e queste sono difficilmente controllabili), dall’altro, è possibile e auspicabile sviluppare studi che indichino quali interventi sono più efficaci in termini di apprendimento e, quindi, di effetti sulla salute dei pazienti.
Tutto questo non significa disconoscere il lavoro educativo informale, non strutturato, che molti professionisti della cura (non solo infermieri, ma anche medici, logopedisti, dietisti ecc.) agiscono – spesso in modo inconsapevole – nella pratica quotidiana, per esempio quando gestiscono relazioni terapeutiche articolate sul lungo periodo, nelle quali, oltre alla discussione sulle conoscenze e le skill possono trovar spazio momenti di scambio basati su un autentico approccio di care (intesa come aver cura dell’altro, rispondendo non solo ai suoi bisogni materiali, ma anche esistenziali), che aiutano il paziente a ridefinire la sua identità di persona malata. Sono rari, però, questi momenti, soprattutto nei contesti ospedalieri, perché i tempi che i nostri sistemi sanitari ci chiedono sono sempre più risicati.
È allora cruciale che tutti i professionisti della cura che si occupano di cronicità sviluppino capacità di lavoro di rete anche e soprattutto per quanto riguarda le pratiche educative, imparando a osservare i territori e coinvolgere i gruppi spontanei, le associazioni, i volontari e gli altri stakeholder nel processo autentico di educazione dei pazienti. Come dice anche Ota de Leonardis (2022), la cura è qualcosa che in ogni caso non si fa da soli e nemmeno soltanto con la persona direttamente interessata: nei mondi della vita ci sono molte energie curative da riparare […] che liberano un ricco repertorio di attività, difficilmente riconducibili all’assistenza, ma capaci di curare le lacerazioni della vita di chi è coinvolto” (ivi, p. 23).
È dunque importante che il professionista sanitario, e in particolare l’infermiere, figura alla quale questo testo è principalmente dedicato, impari, da un lato, a sviluppare processi d’insegnamento efficaci, coi pazienti e i loro caregiver, al fine di apprendere come gestire al meglio la malattia cronica, e, dall’altro implementi la capacità del lavoro di rete non solo con finalità assistenziali, ma anche educative, perché, laddove deve inevitabilmente finire il lavoro del professionista della cura (esperto sulla malattia), può iniziare poi quello delle associazioni, dei volontari, della comunità e di tutti gli stakeholder esperti sull’esperienza di malattia. L’educazione si sostanzia in esperienze, alle quali, attraverso il necessario sostegno, impariamo a dare un significato esistenziale.
Lucia Zannini
Piano dell’opera
Capitolo 1. Promuovere la salute ed educare all’autocura
Capitolo 2. Fasi e modelli comunicativi del processo educativo
Capitolo 3. Analisi dei bisogni educativi e definizione delle priorità
Capitolo 4. Comportamenti di salute attesi e condizioni necessarie per raggiungerli
Capitolo 5. Monitoraggio dell’apprendimento e strumenti a supporto
Capitolo 6. Valutare durante e alla fine del percorso educativo
Capitolo 7. Attuare il percorso educativo
Capitolo 8. Casi clinici di interventi educativi individuali
Capitolo 9. Educazione alla salute rivolta a comunità e gruppi target
Capitolo 10. Creare le condizioni organizzative e formative per sostenere la promozione dell’autocura