Premessa
Ho sempre voluto fare il medico, mio padre, i miei nonni lo erano. Mio padre era un medico generico e aveva lo studio in casa. Sin da piccolo mi nascondevo nella stanza accanto allo studio medico ed ascoltavo i discorsi dei pazienti, le domande a loro rivolte ed immaginavo come venivano visitati. Intorno ai 12-13 anni a volte assistevo ai discorsi di un amico di famiglia che chiedeva consigli su come curare il proprio male, come se si trattasse di una conversazione salottiera in cui la mia presenza era accettata. Ero affascinato dalle parole di mio padre che chiedeva al paziente quali erano i sintomi accusati, da quanto tempo si verificavano, quali malattie aveva avuto in passato, come era il tipo di dolore, la sede, in quali situazioni o momenti della giornata si presentava, se il disturbo era in relazione ai pasti e tante altre domande. Poi chiedeva di recarsi con lui nello studio per poterlo visitare. Naturalmente a questo punto dovevo allontanarmi!
La passione per la medicina è sempre stata viva in me e dopo il liceo mi iscrissi alla Facoltà, senza neanche avere un minimo dubbio. Era il 1965 e mi iscrissi alla Università di Bari che era considerata un’ottima scuola di medicina e poi era non distante da Taranto, la città in cui sono nato e dove vivevano i miei. In facoltà nei primi anni studiavo la patologia medica e non posso mai dimenticare che mio nonno materno, Professore Universitario di Chirurgia a Napoli, che da pensionato viveva con noi a Taranto e aveva se ricordo bene 83 anni, mi aiutava nello studio e mi descriveva con naturalezza le varie patologie e mi faceva comprendere come la semeiotica medica e chirurgica consentisse di avvicinarsi alla diagnosi.
Ebbene sì, la semeiotica, cioè la disciplina che studia i sintomi e i segni clinici, branca della medicina il cui oggetto di studio sono i sintomi soggettivi e i segni di malattia e di come entrambi debbano essere integrati, era ed è ancor oggi la base della medicina, fondamentale per giungere ad ipotesi diagnostiche da validare eventualmente in un secondo momento con indagini strumentali.
Dopo la laurea e la specializzazione in Radiologia sono rimasto in campo universitario sino a diventare Professore Ordinario e pertanto mi sono dedicato all’insegnamento. I miei specializzandi sanno che ho sempre sostenuto che la cosa più importante è considerarsi non “produttori di immagini”, come generalmente considerati da altri colleghi, ma essenzialmente Radiologi Clinici.
L’argomento di questo breve libretto che non ha valore scientifico rappresenta la volontà di far conoscere ai lettori di qualsiasi preparazione culturale una questione che mi sta molto a cuore, ovvero il fatto che oggi circa un esame radiologico su tre è inutile. Il perché di questa affermazione deriva dal fatto che in Italia i medici delegano all’imaging radiologico lo studio del paziente ed il riconoscimento della patologia. In poche parole viene demandato al radiologo la possibilità di formulare la diagnosi. Quali sono le basi di questo comportamento? La radiologia o meglio la Diagnostica per Immagini è stata negli ultimi 30 anni la disciplina medica che più di ogni altra è progredita sul piano tecnologico con l’avvento di metodiche quali l’Ecografia (ECO), la Tomografia Computerizzata (TC, ma comunemente chiamata TAC), la Risonanza Magnetica (RM) e la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET). Oggi i Radiologi possono esplorare l’anatomia umana in vivo con le varie metodiche a loro disposizione e riconoscere le manifestazioni patologiche a carico dei vari organi ed apparati. Un esempio? In un paziente in coma per un accidente vascolare cerebrale basta fare una TAC per diagnosticare se il coma è sostenuto da una patologia infartuale o emorragica e riconoscere l’entità, la sede, l’eventuale patogenesi. Si comprende quindi come in una circostanza simile i colleghi medici decidano di inviare immediatamente il paziente in un ambiente radiologico per eseguire l’esame e giungere rapidamente alla definizione diagnostica ai fini terapeutici, senza fare alcun esame semiologico che possa indirizzare verso l’entità e la sede della patologia, tanto sarà tutto chiaro dalle immagini TAC.
Un esempio che mostra l’inutilità degli esami radiologici è legato alla consuetudine di ricorrere all’imaging difensivo da parte dei medici del pronto soccorso anche quando non vi sono elementi semeiologici adeguati per sottoporre il paziente ad esami appropriati. Pensate che un esame TAC dell’addome comporta un’irradiazione paragonabile a 750 radiografie del torace.
Un esame deve essere appropriato al quesito clinico; occorre poi che sia giustificata la sua esecuzione, cioè ritenuta necessaria e non sostituibile con altre metodiche di diagnosi. L’esame infine deve essere ottimizzato, ovvero in grado di produrre immagini di qualità adeguata al quesito diagnostico somministrando la minima dose al paziente. Nell’ambito dell’area radiologica l’appropriatezza prescrittiva è pertanto un aspetto che riveste particolare significatività al fine del controllo della domanda di prestazioni, in quanto spesso si registra un ricorso ad esami, ad elevata tecnologia e ad alto costo, che non sono aderenti a linee guida validate da società scientifiche. I radiologi sono pertanto tenuti a controllare se le richieste degli esami siano adeguate ai quesiti clinici e se esiste l’appropriatezza e la giustificazione.
In alcune situazioni il quesito clinico è appropriato all’esame richiesto ma l’esame in realtà risulta inutile ai fini della gestione del paziente e della sua malattia. Alcuni clinici pur di far effettuare le indagini per fini non giustificabili o legati al “cosiddetto imaging difensivo”, pongono quesiti che non sono decisamente inappropriati ma che in realtà non sono il risultato di una semeiotica che indichi sintomi soggettivi e segni di malattia. Ad esempio, richiedere una TAC dell’encefalo con la diagnosi generica di cefalea in un paziente che non presenta alterazioni neurologiche documentabili con un’attenta anamnesi e con la ricerca di segni di sofferenza cerebrale o alterazioni di tipo sinusitico è certamente in qualche modo un esame che potrebbe essere considerato appropriato, ma che nella quasi totalità dei casi risulta negativo e pertanto inutile, ma soprattutto dannoso per l’esposizione e l’assorbimento di radiazioni. Cosi come eseguire un esame RM o TAC del ginocchio con la diagnosi di artrosi in un paziente di 90 anni deve essere considerato inutile ai fini del valore diagnostico di una patologia senza dubbio presente ma legata all’età del paziente e che non comporta particolari terapie indicate dal risultato dell’esame. Ma sempre più spesso i colleghi richiedono esami che possiamo definire inutili perché non ritengono possibile basarsi sulla valutazione anamnestica e sulla visita clinica come i medici di trenta o quaranta anni fa quando lo studio semiologico del paziente era fondamentale per condurre verso la diagnosi, e demandano all’imaging la risoluzione della eventuale presenza di alterazioni patologiche, o sono costretti ad accontentare pazienti patofobici che insistono nel farsi prescrivere esami che non trovano riscontro nella sintomatologia accusata.
Giovanni Carlo Ettorre
INDICE
L’imaging difensivo
Le dimensioni del problema, dati statistici
L’appropriatezza
Il danno da radiazioni e il consenso informato
Conclusioni